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L’INTERVENTO – Col Coronavirus ognuno incontra le proprie paure

14 Aprile 2020 // La Martinella di Firenze

Rita Ragonese vive nel trevigiano dove lavora come assistente sociale. Dopo la laurea specialistica in Scienze del Servizio Sociale, si è formata in Metamedicina, di cui è diventata consulente, arricchendo il proprio bagaglio di strumenti operativi utilizzati nel processo di aiuto alle persone. E’ autrice del romanzo “Tripoli, la terra di chi” pubblicato del 2019 e di numerosi racconti. Le abbiamo chiesto un contributo sulla paura di incrociare gli altri, sulla stessa strada o sul medesimo marciapiede, in queste settimane dove i rapporti sociali sono pressochè azzerati per evitare il rischio di un potenziale contagio

Cosa sarà questa paura informe che abita in ogni nostra casa da quasi due mesi? È liquida, infiltrante, invisibile, direttiva.

Rita Ragonese

Dire che sia la paura del virus è come dire niente. Si sa che la malattia spaventa, il cancro addirittura angoscia. Dire che sia la paura del virus è come proferire solo le iniziali del nostro nome e cognome per connotarci. Troppo poco.

La paura è normale, è un’emozione primaria, necessaria per la nostra autotutela e che ci fa decidere se attaccare o fuggire. È l’energia contrapposta a una minaccia, a un pericolo specifico. Ma la paura del coronavirus è disorientamento perché non è la reazione a un pericolo specifico. Perchè il coronavirus non è nero, non ha una religione, non ha una psiche alterata, non arriva con i barconi, passa le frontiere senza dazi. E si sberleffa dei nostri castelli di cristallo. Di conseguenza noi non abbiamo colori, religioni, civiltà, stati mentali da proteggere  e ci troviamo  impossibilitati a scaricare sulla minaccia le nostre tensioni.

Ognuno provi a pensare a ciò che teme maggiormente in questa situazione. Qualcuno dirà, com’è ovvio, che ha paura di ammalarsi e di morire, o che muoiano i propri cari. Ma molti altri diranno che temono di perdere il controllo della situazione. O addirittura la libertà. Altri ancora temono di perdere il lavoro, di non avere denaro sufficiente a pagare l’affitto, le bollette, il cibo. Altri ancora, nonostante il proprio benessere economico, avranno paura di non avere abbastanza da mangiare.  Qualcuno, invece, avrà soprattutto paura di perdere tempo. E di perdere affari, relazioni, occasioni.

In questa rara circostanza di pressione esterna, ognuno di noi, a livello interiore, sta incontrando le proprie paure, mai uguali tra loro. Sarebbe davvero un’opportunità sprecata non andare loro incontro e domandarsi da dove provengano, da quale anfratto della propria memoria emozionale, e quale messaggio ci portano affinché si possa al più presto rialzarsi cambiati, rafforzati. Ognuno ha il proprio punto fragile che richiede di essere visto, riconosciuto e trattato per essere trasformato in forza vitale. Quale condizione migliore di questa silenziosa primavera?

La paura del contagio ci ha in qualche modo resi uguali modificando quel rapporto verticale troppo diffuso a cui eravamo abituati tra chi veniva osservato e chi osservava e poi giudicava. E così, molte persone che facevano del giudizio il sale della propria vita, e salivano qualche gradino più in alto degli altri per distanziarsene, per non venire contaminate da modi di vivere considerati malsani, adesso si trovano a essere loro stesse una minaccia per gli altri. Siamo tutti potenziali cause di contagio in una inedita distribuzione orizzontale della pericolosità. Ci guardiamo negli occhi, l’unica parte del viso rimasta scoperta, e siamo alla pari. Il tanto temuto “altro” adesso siamo noi. Nessuno ci vuole a distanza ravvicinata, siamo una minaccia. Questo può portarci a pensare a quando, in passato, abbiamo tenuto a distanza di sicurezza persone sconosciute che consideravamo un pericolo per la nostra stabilità, persone spesso fragili ma considerate così potenti da mettere a repentaglio la nostra effimera sicurezza. Persone in effetti così potenti da farci piombare nelle nostre paure primordiali ma che ci offrivano al contempo il bersaglio della loro stessa visibile presenza verso cui sfogare il malumore.

Ecco, la rivoluzione del Coronavirus ha un potenziale immenso, sta amplificando i pregi delle persone empatiche, attente, osservatrici di se stesse e pronte al cambiamento. Ma purtroppo rischia di amplificare anche quelle energie negative tipiche delle persone che abitualmente riversano all’esterno ogni malessere, che sono perennemente a caccia del colpevole, che non indagano mai se stesse.

Il mio augurio è che la rivoluzione del Coronavirus non sia una primavera araba.

Rita Ragonese

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Argomenti:Coronavirus, paura, Rita Ragonese

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